di Giorgio Gambini
Parte I
LE ORIGINI ITALIANE DEL MADRIGALE E LUCA MARENZIO
A mio modo di vedere, il Cinquecento è una sorta di preistoria della musica pop e rock contemporanea. Nelle melodie e nei testi cinque, seicenteschi, soprattutto in quelli anglo-sassoni (ma non vorrei che si trascurassero i determinanti contributi italiani) si possono, a mio avviso, individuare i germi di tante belle canzoni dei nostri tempi. Ovviamente, gusto, strumenti, senso del ritmo, modo di cantare e stesura compositiva raramente coincidono. Eppure le emozioni si assomigliano, i testi rivelano assonanze, le atmosfere richiamano e trasmettono lo stesso senso d’inquietudine. E’ una “fratellanza” che emerge con particolare vigore nelle epoche manieristica tardo-rinascimentale e barocca.
“Inquietudine” è forse la parola chiave per definire l’essenza più profonda del musicista: colui che, come qualunque altro artista o scienziato, si sente in qualche modo alienato e incompreso dal suo tempo, spesso travolto da passione amorosa, malinconia struggente, tormento interiore, mancanza di certezze assolute, paura del futuro, desiderio mai pago di creare bellezza. Sì, forse è “inquietudine” il termine che meglio sa esprimere il carattere di quell’eterno sognatore e cercatore di verità, armonia ed eleganza che è il creatore d’arte. Per tale ragione, l’artista, e tanto più il musicista, è un uomo solo e insoddisfatto. Forse proprio per questa stessa ragione credo che, assieme alla letteratura e alle arti visive, la musica sia l’espressione più vivida – e mai ferma – della tormentata sensibilità umana. Insieme a pittura e scultura, la musica è un codice umano di valore universale perché può essere perfettamente compreso e apprezzato da popoli di lingue e culture diverse.
Nel corso dei secoli, molti intellettuali, sia credenti che non, hanno captato nella musica una lontana eco del verbo divino ancora in grado di risuonare nell’etere di questo pianeta. D’altra parte, anche certi studi scientifici lo confermano: la musica sembra essere nata ancora prima dell’uomo e, certe volte, appare come l’autentica custode del soffio vitale che ci fa esistere.
Quanto a me, allo stesso modo, amo pensare che le note musicali siano la testimonianza più concreta di un qualcosa che va oltre la misteriosa e “labile materia di cui fummo costrutti” (come scrive il grande Jorge Luis Borges nella poesia Eraclito in Elogio dell’ombra). Credo, per esempio, che il madrigale cinquecentesco rappresenti una sorta di musica proto-moderna. Dico questo perché mi pare che la perfetta fusione di testo poetico e note musicali – tanto in voga nella musica pop e rock del nostro tempo – muova i suoi primi passi proprio da qui. Come spiega l’eminente musicologo Massimo Mila, nei primi decenni del Cinquecento il madrigale è il “rivestimento musicale” di qualsiasi breve poesia profana e, in Italia, è la forma melodica che trova la sua migliore espressione nelle composizioni di Luca Marenzio, Andrea e Giovanni Gabrieli, Carlo Gesualdo e Orazio Vecchi, autori capaci di raccogliere il testimone dei maestri fiamminghi di polifonia Adriano Willaert e Philippe Verdelot. Le composizioni di questi musicisti sfoceranno presto nella forma compiuta del madrigale e del melodramma barocco-seicentesco di Claudio Monteverdi.
L’ambiente in cui fiorisce lo stile musicale del madrigale è quello delle corti rinascimentali italiane, luoghi raffinati che sentono risuonare i versi del Petrarca prima, di Ariosto e del Tasso poi, e che ispirano ai musicisti melodie di tema profano assieme a un’espressione artistica sempre più sottile e ricercata. In sostanza, il madrigale delle corti si spoglia della veste popolaresca e si accompagna alla corrente letteraria del petrarchismo. Penso che ognuno di noi possa immaginare i cantori che intrattengono i nobili attorno al camino e davanti al crepitio del fuoco nelle fredde notti d’inverno con le loro struggenti storie d’amore e rievocazioni dei miti antichi. Eccoli lì, i musici, mi sembra quasi di vederli mentre accarezzano le corde del liuto e intonano il loro canto nella penombra. Probabilmente questo genere di musica nasce proprio dal buio, dal fuoco e dal desiderio, vale a dire da quei tre elementi che il critico musicale contemporaneo Gino Castaldo individua come le più profonde e autentiche sorgenti della musica di ogni epoca: il buio della notte negli spettrali castelli e palazzi signorili, il fuoco del braciere nelle stanze fredde e tenebrose, il desiderio di riscaldare gli animi e intrattenere un pubblico con storie ricamate sulle note del liuto (melodie intonate per dimenticare, seppure per poco, le paure e gli stenti della vita quotidiana).
La nuova musica nasce dall’equilibrio che si crea fra la polifonia liturgica di stampo medievale (il canto gregoriano), il contrappunto (l’arte di comporre sovrapponendo simultaneamente più linee melodiche) e il nuovo senso dell’armonia (la concordanza di suoni e voci). Ma è soprattutto l’intera atmosfera di un’epoca ad attribuire alle facoltà creative dell’uomo una maggiore importanza e a privilegiare una concezione più immanente e naturale della vita. Ecco allora, all’inizio del Cinquecento, pittori come Giorgione, Tiziano, Dűrer, Holbein – poi Veronese e Caravaggio, verso la fine del secolo – scoprire la natura, renderla protagonista di molti loro dipinti e dare il via a un’era proiettata verso la modernità ricca di sfumature chiare e scure, luci, ombre e, perché no, suoni. In musica l’equivalente del chiaroscuro pittorico è il cromatismo, vale a dire l’inserzione sulla scala diatonica di diesis e di bemolli. Tocca in particolare a Cipriano de Rore (1516-65), presso la corte dei Farnese, avviare il madrigale sulle vie del cromatismo e colorare la musica di una maggiore penetrazione psicologica.
Luca Marenzio (1560-99), vissuto presso la corte estense, in Polonia e presso il Papa, è il musicista italiano che porta il genere del madrigale alle altezze più sublimi (si potrebbe quasi dire che Marenzio stia a Monteverdi come Mozart sta a Beethoven). Massimo Mila paragona le soavi e armoniche melodie di Luca Marenzio all’arte pittorica delicata e femminea del Correggio. Se infatti si ascolta il brano vocale intitolato Al primo vostro sguardo, col suo elegante gioco di voci, uso della modulazione armonica, del semitono cromatico e delle dissonanze, ci si rende conto che il polifonismo e il petrarchismo sonoro trovano proprio in Marenzio la loro espressione più compiuta. Il perfetto equilibrio formale del Marenzio si spezza col napoletano Carlo Gesualdo, principe di Venosa (1560-1614) la cui vita tempestosa (pare che egli abbia fatto fuori un suo rivale in amore) può essere paragonata a quella di Michelangelo Merisi, detto Caravaggio (altro personaggio piuttosto inquieto), l’animo più romantico e tormentato della pittura tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento. Il brano Occhi del mio cor vita è un esempio del trapasso dal ritmo armonico e ordinato del Rinascimento alla convulsa interiorità del Barocco per mezzo della modulazione, cioè del continuo sovrapporsi delle voci e dal passaggio da una tonalità all’altra. Gesualdo è un campione di quel senso tipico di “melanconia” tassesca che serpeggiava in Europa sotto l’uggia della Controriforma ed è irresistibilmente attratto dal “labirinto della modulazione”. D’altronde, è assai noto il fascino di cui il simbolo del labirinto godette in età barocca.
In Italia, l’arte della melodia suonata dal liuto trova in Santino Garsi da Parma un eccellente compositore ed esecutore (da come si può sentire nel brano strumentale intitolato Corenta), mentre l’incipiente spirito barocco è ben rappresentato dal modenese Orazio Vecchi (1550-1605), autore dell’Amfiparnaso, un madrigale accompagnato dal clavicembalo e cantato in spagnolo (siamo nel 1597, in piena dominazione spagnola). Nel brano dialogano vivacemente cinque voci che suggeriscono l’immagine di una sfilata di maschere.
Nel parlare della musica cinquecentesca non si può prescindere da un quadro storico imperniato sull’apertura degli orizzonti dovuta alle grandi scoperte geografiche, all’affermazione di nuovi gusti e di nuove prospettive umanistico-religiose. Il Cinquecento è il secolo della Riforma protestante e della Controriforma della Chiesa di Roma, sicché, mentre in Italia la scuola musicale romana e quella veneziana (assieme a quella spagnola) continuano a sostenere il cattolicesimo e ad operare nello spirito della Controriforma, la musica dei paesi del Nord Europa evolve un carattere più laico e si stacca dalle regole da sempre imposte dalla Chiesa romana. Ne è testimone la musica di John Dowland, il più importante musicista del Cinque, Seicento inglese assieme a Henry Purcell.
Vedremo nella prossima puntata come, a partire dalla cultura anglosassone, la musica avrà uno sviluppo importante verso temi più intimi e profani, fino ad influenzare un musicista rock contemporaneo di fama mondiale come Sting.