
di Giorgio Gambini
Sette anni fa iniziavo la mia avventura letteraria pensando di realizzare un’opera molto ambiziosa, troppo ambiziosa per la mia preparazione ed esperienza di allora. Scrissi una sorta di saggio, Il ruggito del Maelstrom, per parlare dei misteri della vita e mettendomi nei panni di un cavaliere in viaggio nel passato per commentare a uno a uno i testi delle diciannove canzoni contenute nell’album musicale a cui attribuii lo stesso titolo del libro. Le due opere nacquero simultaneamente. Mentre scrivevo pagine e pagine di note, registravo le mie canzoni e inserivo tra di esse alcuni brevi intermezzi, o interludi, tratti da musiche celebri e attinenti ai temi sviluppati. Così, la canzone Knight of the Lost Holy Grail (Il cavaliere del Graal perduto), di argomento medievale, venne preceduta da una mia versione di un frammento della famosa O Fortuna dei Carmina Burana. In sostanza, scelsi una particolare strofa di quel canto profano medievale, lo ricantai e lo misi in musica con chitarra acustica, tastiere e timpani. Di pari passo, in un capitolo del mio libro, trattai con collegamenti acrobatici una serie di riferimenti storici, musicali, pittorici, scientifici, esoterici e cinematografici legati al tema conduttore. Ciò che segue è il capitolo che scrissi nel 2006 su O Fortuna, dopo una serie di letture, ricerche e approfondimenti relativi al brano originale e ai suoi contenuti.
Sors immanis et inanis, rota tu volubilis,
Status malus, vana salus, semper dissolubilis,
Obumbrata et velata michi quoque niteris;
Nunc per ludum dorsum nudum fero tui sceleris
Sorte orrendamente crudele e vana, tu ruota che gira,
condizione orribile, inutile prosperità, sempre destinata al nulla,
nascosta nell’ombra e velata tormenti anche me;
ora, per gioco, offro il mio dorso nudo alla tua scelleratezza.
Questo breve interludio è tratto dal primo dei due movimenti – forse il più famoso – di Fortuna Imperatrix Mundi, sezione iniziale dei Carmina Burana, una raccolta di canzoni medievali composte da studenti e chierici tedeschi anonimi intorno al 1150. Il merito di avere raccolto e musicato questi antichi canti profani e di averli proposti al grande pubblico spetta al musicista tedesco Carl Orff (1895-1982), grazie al quale il coro potente e drammatico di O Fortuna è entrato di diritto nella musica classica contemporanea e nell’immaginario collettivo. Arrangiato per la prima volta nel 1937, esso viene frequentemente riproposto e utilizzato in situazioni come film, spettacoli teatrali o circensi e spot pubblicitari per ricreare atmosfere inquietanti di richiamo tipicamente medievale. O fortuna dei Carmina Burana mette in rilievo l’impotenza umana di fronte alla cecità della fortuna e alla crudeltà della cattiva sorte; un sentimento costantemente presente nel cuore degli uomini del Medioevo, quando guerra e peste falcidiavano inesorabilmente le popolazioni e rendevano molto precaria la condizione quotidiana di vecchi e giovani, miserabili e ricchi. L’atmosfera agghiacciante del coro tende ad evocare la classica immagine della morte riportata dall’iconografia del tempo: l’orrendo teschio avvolto dal mantello nero con la falce alla mano. Ho scelto la seconda strofa del celebre coro per proporre una personale interpretazione e un mio arrangiamento di quella che ritengo la parte più attinente a uno dei temi ricorrenti del Ruggito del Maelstrom: l’ineluttabilità della sorte umana e la corsa verso la morte (o, viceversa, verso la rinascita). Da notare che, nell’ultimo verso della strofa di O fortuna, viene fuori un senso di sfida alla sorte, come se il fato umano dipendesse da un gioco, o meglio, da una partita a scacchi che impegna l’uomo in un combattimento perduto in partenza. La traduzione della strofa, che ho ricantato in latino-medievale, è di mia moglie Anna, latinista. Grazie al suo contributo ho cercato di rendere al meglio, e in tutta la loro drammaticità, le sfumature del testo e lo stato d’animo dei compositori anonimi della Germania del XII secolo. Allora come oggi, e forse più di oggi, il senso della fragilità umana era molto forte e toccava ogni aspetto del quotidiano.
Il tema del destino evocato da Fortuna Imperatrix Mundi, con tutti i suoi aspetti simbolici e allegorici tipici del medioevo, è rappresentato con grande effetto in un capolavoro di uno dei più grandi cineasti contemporanei, lo svedese Ingmar Bergman. Il Settimo Sigillo, lungometraggio girato da Bergman nel 1956, fu ispirato, come afferma lo stesso regista, dall’ascolto dei Carmina Burana di Orff. Spiegando la genesi del film, Bergman ricorda che “I Carmina Burana sono costruiti su canti medievali composti da chierici vaganti durante anni di peste e di guerre sanguinose” e che sono l’espressione musicale in grado di evocare al meglio la cupezza e la drammaticità di quei tempi. Forse uno dei riferimenti che Bergman non riusciva a cancellare dal suo inconscio è una data tristemente impressa nella memoria collettiva della Svezia: 1349, quando un’epidemia di peste uccise circa un terzo dell’intera popolazione. Il film è tuttavia ambientato ai tempi delle crociate, un periodo molto antecedente (le Crociate in Terra Santa sono otto: la prima nel 1096-1099, l’ultima nel 1270), e comincia con il ritorno in Svezia del cavaliere Antonius Block (interpretato dall’attore Max von Sydow) e del suo scudiero, l’agnostico e beffardo Jöns (Gunnar Björnstrand), dopo dieci anni trascorsi in Terra Santa a combattere per liberare il Santo Sepolcro di Gerusalemme. La scena iniziale de Il settimo sigillo, ambientata su una spiaggia della costa scandinava, è proprio l’incontro-dialogo tra Block, assalito dal dubbio sull’esistenza di Dio, e la Morte (l’attore Bengt Ekerot). L’approccio di quest’ultima non scuote più di tanto il disilluso cavaliere, il quale però le chiede una dilazione sfidandola a una partita a scacchi. La Morte, raffigurata con un inquietante viso bianco e il lungo mantello nero, accetta la proposta e invita il predestinato a seguirlo. I due si chinano sulla scacchiera, sotto un cielo plumbeo (facile immaginarlo, anche se il film è girato in bianco e nero!), e il gioco ha inizio. Proseguirà con varie pause nelle quali si avvicenderanno i personaggi scelti per rappresentare un campionario completo (saltimbanchi, appestati, asceti, presunte streghe, inquisitori, banditi) dei tanti possibili “caratteri” della Svezia medievale sotto l’incubo della peste. Block sa di dovere perdere la sua partita con la Morte, ma cerca ripetutamente di avere da lei delle risposte che diano un senso all’esistenza. Risposte che non arriveranno. Nell’ultimo dialogo con il cavaliere, la Morte dichiara in modo disarmante di non sapere nulla sul senso della vita. Il tema scelto da Bergman è dunque “il silenzio di Dio” – tema ricorrente della letteratura ebraica sull’Olocausto -, un Dio che non si manifesta né in segni né in opere e anzi permette che sulla terra avvengano le peggiori nefandezze. “A quel tempo vivevo con alcuni poveri resti della mia devozione infantile, un’idea del tutto ingenua di ciò che si potrebbe chiamare la salvazione extraterrena. (…) «Il settimo sigillo» è in definitiva una delle mie ultime espressioni di fede, delle idee che avevo ereditato da mio padre e che portavo con me dall’infanzia”, spiega il regista, dichiaratosi poi ateo. Ciò nonostante, il film resta dichiaratamente religioso fin dal titolo. Il ”Settimo Sigillo” non è altro che l’ultimo degli stampi a chiusura sigillata che, secondo il Libro dell’Apocalisse di San Giovanni, impediscono la lettura del libro a forma di rotolo tenuto in mano da Dio. Solo la sua rottura (Apocalisse, capitolo VIII) rivelerà i segreti riguardanti la vita e il destino dell’umanità, ma soltanto l’Agnello, il Cristo figlio di Dio, potrà procedere a rompere il sigillo del libro. Nel film, la salvezza sarà riservata unicamente al saltimbanco Jof (Nils Poppe), a sua moglie Mia (Bibi Anderson) e al loro bambino. Il resto de Il settimo sigillo consiste nella narrazione del viaggio del cavaliere assieme ai giocolieri e ad un altro gruppetto di persone verso il proprio castello. Ma la Morte attende al varco. Approfittando di una sosta, Block distrae per un attimo il suo macabro antagonista davanti alla scacchiera e permette alla comitiva di rifugiarsi nel castello dove, Karin, la moglie del cavaliere, sta leggendo un brano dell’Apocalisse. Poi, lo scacco matto: la Morte si presenta nelle stanze del maniero e gli occhi di tutti i presenti si spalancano in un’espressione di terrore. Soltanto i saltimbanchi, non entrati nel castello, si risvegliano ancora vivi sulla riva di una spiaggia illuminata dalla luce del sole, a bordo del loro calesse. Bergman sembra voler dire che sono i semplici a salvarsi. Nel frattempo, in lontananza, la morte danza con coloro che ha falciato e ora la seguono verso l’ignoto (la “Danza della Morte” del Settimo sigillo è una delle più famose scene-cult della storia del cinema). Con questa conclusione, il cineasta svedese sembra volere affidare idealmente ai clown e agli artisti il compito di incarnare la speranza nel futuro.
Per gli autori e gli artisti del Medioevo, la scacchiera e il gioco degli scacchi simboleggiano il percorso della vita e fungono da medium nella rappresentazione della morte. Il gioco degli scacchi, che Bergman scelse di inserire nel Settimo Sigillo, arrivò in occidente grazie ai musulmani intorno alla metà del X secolo e in Scandinavia nell’XI secolo. Il merito di tale importazione è probabilmente dovuto agli intensi commerci allora in atto tra l’impero bizantino e le terre dell’Islam. Le origini propriamente dette sono orientali, forse indiane e persiane. Secondo la leggenda, l’inventore degli scacchi fu Palamede, un guerriero greco dell’Iliade, cugino di re Menelao, che inventò il gioco sotto le mura di Troia per creare un passatempo che aiutasse a sopportare la noia del prolungato assedio. La cosa strana è che, dopo essere stato eroe greco, Palamede ricompare, con lo stesso nome, tra i cavalieri della Tavola Rotonda nei romanzi arturiani, amico e rivale in amore di Tristano, e nel Tristano in Prosa del XIII secolo. Il nuovo Palamede occupa un posto rilevante nella letteratura di quel tempo perché rappresenta il figlio infedele del sultano di Babilonia che si converte al cristianesimo e raggiunge la corte di re Artù, dove introduce la scacchiera per istruire i cavalieri della Tavola Rotonda sul punto da cui partire per la cerca del Graal. Intorno al 1230, il gioco degli scacchi comincia così ad assumere un significato di percorso iniziatico e, attraverso la figura di Palamede, pagano fattosi cristiano e dotato di uno scudo a scacchi, prima mette in evidenza il dualismo del personaggio e poi ne testimonia la conversione attraverso un vero e proprio rito d’iniziazione.
Il simbolismo medievale del gioco degli scacchi è descritto con straordinaria lucidità da un grande storico e paleografo francese dei nostri tempi, Michel Pastoureau, nel saggio Medioevo simbolico, pubblicato nel 2004 col titolo originale di Une histoire symbolique du Moyen âge occidental. Vi riporto un paio di estratti molto interessanti di questo libro. Ecco il primo: “Una partita a scacchi può annunziare il passaggio da questo all’altro mondo, e una partita contro la Morte – tema letterario ed iconografico ricorrente a partire dal XIII secolo – impegna un combattimento perduto in anticipo. La cultura europea ha prolungato al di là del Medioevo questo ricco simbolismo della damiera-scacchiera, insieme dinamica, musicale, mediatrice e macabra. Nel XX secolo è, ad esempio, il più musicale di tutti i pittori, Paul Klee, a fare di questa figura uno dei suoi temi pittorici preferiti, mentre il cineasta più attratto dalla metafisica, Ingmar Bergman, ha messo in scena nel suo splendido «Settimo sigillo» l’ultima ed eterna partita a scacchi che oppone il cavaliere e la Morte”. Come promesso, ecco il secondo estratto, con cui Pastoureau conclude il capitolo del suo libro dedicato al gioco degli scacchi in occidente: “La fine del Medioevo ci ha lasciato diversi testi letterari che prendono a tema o a pretesto il gioco degli scacchi. Si tratta, sulla scia delle chansons de geste e dei romanzi cortesi del XII e XIII secolo, in cui le partite a scacchi erano numerose, di opere allegoriche che raccolgono l’eredità del Roman de la Rose, il quale anch’esso accordava alle metafore scacchistiche un posto di riguardo. (…) Per i poeti e i romanzieri, il gioco degli scacchi è infatti diventato nel corso dei secoli un soggetto a pieno titolo, offrendo insieme una struttura narrativa, un quadro simbolico e un universo poetico ineffabile. Lontano dal Medioevo, Edgar Allan Poe (L’automa di Maezel), Lewis Carrol (Dall’altra parte dello specchio), Vladimir Nabokov (La difesa di Luzin), Stephan Zweig (Il giocatore di scacchi), Samuel Beckett (Murphy) e molti altri hanno dedicato agli scacchi alcuni loro libri tra i più strani e affascinanti. Perché il gioco degli scacchi non è veramente fatto per giocare. E’ fatto per sognare. Sognare il movimento dei pezzi e la struttura della scacchiera; sognare l’ordine del mondo e il destino degli uomini; sognare, come nel Medioevo, tutto ciò che si nasconde dietro la realtà apparente degli esseri e delle cose”. Straordinario. Ma torneremo presto sulla scacchiera parlando di “eternità” e di “infinito” (mi vengono i brividi solo a pensarci!).
Quanto alla “ruota della Fortuna” (“rota tu volubilis”) cantata nei Carmina Burana, si trattava di un simbolo ambivalente il cui attributo principale era appunto la ruota, un gigantesco ingranaggio in costante movimento capace di decidere sia la buona, sia la cattiva sorte degli uomini, a qualunque rango essi appartenessero. Come poi è noto, l’indifferenza della Fortuna era spesso raffigurata dall’iconografia medievale e rinascimentale come una dama con gli occhi bendati. Avrà avuto ragione Machiavelli a dire che il fato decide il destino dell’uomo al cinquanta per cento e che per l’altra metà è la virtù umana, intesa come intelligenza e capacità di costruire il proprio destino, a neutralizzare gli effetti nefasti del caso? O forse anche la virtù ha bisogno di quella “buona Fortuna” che diviene necessaria nelle situazioni particolari e a cui si appellava Guicciardini nei suoi Ricordi? Forse la domanda è soltanto pleonastica.
In uno degli estratti da Medioevo Simbolico sopra riportati, Pastoureau cita l’opera del grande pittore svizzero Paul Klee (1879-1940) in relazione agli scacchi e alla musica. In Klee, esponente della pittura d’avanguardia della prima metà del Novecento, il motivo degli scacchi è legato a un’idea pittorica che nasce da uno spunto iniziale, come fa il musicista che inventa una linea melodica sulla cui base costruirà un brano musicale o un’intera sinfonia. Le linee grafiche, al limite dell’astrattismo, si sviluppano in reticoli colorati e geometrici spesso incrociati a righe orizzontali e verticali a mo’ di scacchiera. Dipinti e disegni hanno una certa rigidità, come se fossero immaginati su un pentagramma, e lasciano ai tratti grafici il compito di evocare oggetti e figure della realtà. “L’arte non rappresenta il visibile, lo crea”, diceva l’artista svizzero e, partendo da questo concetto, dal 1923 al 1940 sviluppò la serie detta dei Quadrati Magici, in cui la “preistoria del visibile” e il “misterioso” divennero oggetto della sua pittura. L’ammirazione per il colore e la geometria gli derivò in particolar modo da un viaggio in Tunisia nel 1914. Klee rimase come accecato dalla luce del Nordafrica, la filtrò attraverso l’immaginazione e la restituì in dipinti di delicatissima finezza, come il Saint Germain vicino a Tunisi che ho scelto per accompagnare su questo libro il testo di O Fortuna assieme alla Wheel of Fortune, di sapore più medievale, di Lydgate. L’acquerello di Paul Klee assomiglia a una scacchiera inondata di colori luminosi ed è particolarmente misterioso e suggestivo, anche perché, sul suo sfondo, si intravedono figure triangolari che richiamano le piramidi.
Il collegamento tra la Ruota della Fortuna tratta dal libro di Lydgate e il titolo del nostro brano è più immediato. John Lydgate (1370?-1450) fu un instancabile poeta benedettino inglese seguace di Jeoffrey Chaucer che disquisì del tema della Fortuna nel comporre il Troy Book and Story of Thebes. L’autore si ispirò a Guido delle Colonne, poeta medievale siciliano autore di Historia destructionis Troiae, e a un rifacimento in prosa latina del Roman de Troie di Benoit de Sainte-Maure.
In merito, infine, allo stretto rapporto tra Klee e la musica (l’artista svizzero era figlio d’arte e grande amante di Mozart), il critico Will Grohmann descrive la tecnica dell’artista in questi termini: “Klee era anche musicista e volle che la pittura fosse impostata quasi su un sistema di armonia, valido tanto per gli allievi che per il maestro. Egli stesso elaborava gli elementi dei suoi temi come fa un musicista con le note, motivi, temi e modulazioni e, sebbene egli abbia sostenuto la necessità di una netta separazione fra le varie arti, evidenti sono, nelle sue esperienze iniziali, parecchi spunti di coincidenza con la musica”.
Sempre a proposito di musica, il Cavaliere del Graal (il mio alter ego) evoca nella mente alcuni suoi ricordi proprio sulle note dei Carmina Burana e, per un attimo, si identifica col personaggio di Antonius Block. In quel momento, è come se egli si guardasse in uno “specchio che rimane senza risposte”. Come nell’immagine metaforica scelta da Bergman, l’uomo vede se stesso ma non riesce a vedere Dio. Tanto tempo fa anche il nostro eroe immaginario iniziava una partita a scacchi con la Fortuna mentre, con un consapevole e coraggioso atteggiamento di sfida, “offriva il suo dorso nudo alla scelleratezza della sorte” e si metteva al servizio della giustizia e dei più deboli, come un irriducibile don Chisciotte. Ora il cavaliere comincia a intravedere un senso al proprio destino, ma il limbo terrestre che sta attraversando lo lascia amareggiato e pieno di dubbi. Il destino gli porge la mano e tuttavia egli non è ancora pronto a lasciarsi guidare. Lo attendono ancora molte altre prove…